[Birmania] Da Mandalay andiamo alcuni giorni a Hsipaw, una cittadina
tra le montagne a 700 m di quota, dove si possono fare dei trekking visitando
le tribù delle colline. Per raggiungerla ci vogliono sei ore di bus su strada
ben asfaltata, piena di tornanti, ma con belle viste sulle montagne ammantate
di verde. A Hispaw abbiamo prenotato una camera doppia senza bagno, per 14$,
alla Mr. Charles Guest House, una struttura acchiappa turisti dotata di tutte
le comodità, come la colazione all’occidentale, wi-fi e una serie di escursioni
guidate.
Il primo giorno facciamo un lungo giro in barca lungo il
fiume visitando villaggi e piantagioni di ananas. E’ domenica, ma tutti
lavorano nei campi. La guida ci spiega che il giorno festivo domenicale viene rispettato
solo in città, nelle campagne si usa il calendario lunare, con giorni di festa
ogni due settimane, in occasione della luna piena e della luna nuova, alternati
da due giorni festivi meno importanti durante la mezza luna crescente e la
mezza luna calante. Nel tragitto ci fermiamo in un monastero dove ci viene
offerto del fantastico ananas fresco appena colto, mentre poco più in là giovani
monaci sono appiccicati davanti alla televisione proprio vicino all’altare
principale.
Il giorno successivo partiamo per un trekking guidato di
due giorni con visita ai villaggi delle minoranze Shan e Palaung. Siamo in
otto: noi, una coppia di inglesi settantenni, un americano della Florida, una
mamma tedesca, una giovane slovena e un’australiana che non smette mai di
palare. Subito dopo aver lasciato Hsipaw incontriamo delle fabbriche di
noodles, spaghetti cinesi, tutti appesi all’esterno ad essiccare, da lontano
sembrano tante lenzuola appena lavate. La somiglianza con la Cina qui è molto
forte.
Durante il percorso la guida ci racconta alcune strane
usanze degli “amati e odiati” vicini di casa. Fino a vent’anni fa i cinesi
arrivavano nei villaggi del nord e offrivano anche mille dollari per i
testicoli di giovani ragazzi che una volta mangiati, secondo loro, danno virilità
e fertilità. La cifra offerta era enorme per le povere famiglie birmane e non è
stato facile per il governo mettere fine a questo scandaloso commercio di
organi.
Altra “simpatica” usanza cinese tuttora praticata,
secondo la guida, è quella di raccogliere la placenta femminile e il liquido
amniotico del parto per poi mangiarli come “zuppa”, sempre perché aiutano la
fertilità. I due inglesi confermano questa pratica perché l’avevano già letta
su delle riviste specializzate.
Tra un discorso e l’altro cominciamo a salire un sentiero
di terra rossa, dove faticano anche le moto, mentre il panorama si fa sempre
più interessante con contadini che lavorano il mais, bambini che giocano in
lontananza e villaggi di palafitte senza tempo. In ogni insediamento Shan si
può trovare il kin-gyiao, un fallo di
legno posto su un’urna di olio vegetale sotterrata per assicurare la fertilità
dei campi. Mentre i villaggi sono protetti dagli spiriti maligni da cancelli
con simboli lignei di coltelli incrociati.
Arriviamo verso le due nel villaggio di Pankam, 600 anime
in tutto. Pranziamo con riso e ottima zuppa di mango, prima del tramonto un
giro per i sentieri intorno fermandoci nel monastero per sentire i canti dei
monaci. Non c’è l’energia elettrica, alcune case hanno i pannelli fotovoltaici
per caricare le batterie che daranno la luce durante la sera, ma alle otto
vediamo solo una luce oltre alla nostra. Ci fermiamo a parlare un po’ sotto le
stelle, con la luna allo zenit e alle nove siamo già tutti a letto, una grande
camerata sulla palafitta fatta di bambù intrecciato, dove i materassi sono
stesi per terra. Di zanzare, per fortuna, nemmeno l’ombra.
La mattina ci alziamo alle sette e dopo una colazione a
base di noodles, che il mio stomaco si rifiuta di mangiare, si parte di
nuovo per il trekking. Scenderemo
attraverso polverosi sentieri di terra rossa, con le donne nei loro vestiti
colorati e uomini con il caratteristico telo di stoffa avvolto attorno alla
vita, sempre sorridenti e contenti di scambiare delle parole con noi. Un
vecchio di 84 anni ci mostra fiero le gambe piene di tatuaggi, una moda
maschile della tribù.
Verso la fine del trekking ci fermiamo a visitare delle
fabbriche di zucchero di canna dove la produzione avviene tutta sotto quattro
capanne ricoperte di paglia, se non fosse per il fumo dei grandi pentoloni
contenenti la melassa di canna, non si noterebbe niente. Abbiamo assaggiato
prima il liquido verde e dolciastro estratto dalle canne pressate, poi la calda
crema marrone che ribolliva nei pentoloni e infine il prodotto finito, il vero
e proprio zucchero di canna già solidificato. Una meraviglia che ci fa
concludere in dolcezza l’escursione dopo ben 7 ore di cammino.
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